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My House is a Le Corbusier: la perfomance itinerante e camaleontica di Cristian Chironi

Testo di Margherita Falqui

Dopo l’Italia, la Francia, l’India e l’Argentina, il progetto My House is a Le Corbusier di Cristian Chironi si sposta a Berlino nell’Appartamento 258, dove l’artista ha avuto la possibilità di convivere  coi proprietari Henrik e Natalia Svedlund.

Il progetto, intrapreso nel 2015, consiste nel soggiornare all’interno di ciascuna delle opere ideate da Le Corbusier per poi dar vita ad una ricerca artistica sulle suggestioni ed emozioni da lui vissute. Questi edifici diventano l’osservatorio per capire l’attuale eredità del padre del Modulor e per indagare sul rapporto che si crea tra “opera abitabile” e il fruitore, tra architettura ideale e funzionalità popolare.

Un’analisi che viene compiuta raccogliendo gli input che si celano all’interno di queste costruzioni, sensazioni che poi vengono rielaborate in forme creative interdisciplinari quali installazioni, video, fotografie, opere su carta e performance. Durante ogni residenza l’appartamento viene trasformato in un cantiere di idee e luogo di collaborazioni, dove il pubblico può confrontarsi e interagire con l’artista o semplicemente condividere i piccoli gesti del vivere quotidiano, come bere caffè o leggere un libro.

Ad accompagnare Chironi nei suoi spostamenti è una Fiat 127 special, rinominata Camaleonte per la caratteristica di cambiare colore a seconda dell’edificio davanti a cui si ferma.

In questa intervista, Chironi ci racconta l’ultima sua esperienza e l’evoluzione del suo nomade abitare, spiegandoci anche le sue fasi intermedie, quel tempo e quello spazio che lo separano da una performance-residenza e lo avvicinano alla successiva.



Com’è nato il tuo interesse per Le Corbusier? Quanto e come ha influito il tuo luogo di nascita nel determinare l’interesse che ti ha poi portato, dal 2015, a intraprendere questo progetto a lungo termine?

L'interesse per Le Corbusier non è una scelta e men che meno un’ossessione. Tutto è nato da da un racconto che mi fece Daniele Nivola a Orani, di un aneddoto  databile alla seconda metà degli anni Sessanta: Costantino Nivola, legato da una profonda amicizia e collaborazione con Le Corbusier, affidò alla famiglia del fratello un progetto firmato dal grande architetto, con l’auspicio che lui e i suoi figli, in procinto di costruire una nuova casa, seguissero scrupolosamente il disegno originario. L’importanza di questo lascito non fu però recepita. Tempo dopo Costantino, rientrato da Long Island, notò che la casa costruita non corrispondeva affatto a quella immaginata da le Corbusier  e reagì riprendendosi quel progetto. L’abitazione, che si trova tuttora a Orani, è costruita preferendo all’idea modernista del maestro, che a detta di tutta la famiglia “non aveva né porte né finestre e assomigliava più a un tugurio che a una casa”, una funzionalità popolare. 

Prendendo spunto da questo episodio il mio lavoro individua il potenziale narrativo dell’analisi di una serie di relazioni nel contemporaneo con conseguenti implicazioni linguistiche e socio-politiche, che variano a seconda del contesto.

Calandomi, in un periodo storico di difficile e precaria stabilità economica, in quell’impossibilità a possedere una casa di proprietà e prendendomi nel contempo la libertà di abitare le case di Le Corbusier presenti al mondo. Oramai sono quasi stufo di ri-raccontare questo aneddoto tradotto ad oggi in varie lingue, anche se ancora mi fa sorridere. Il mio luogo di nascita ha influito in buona parte nell’ideazione del progetto fornendomi innanzitutto una storia che è poi la mia storia: Daniele Nivola è il nipote di Costantino ed è il padrino di mio padre; Costantino Nivola ha presentato a Le Corbusier il muratore Salvatore Bertocchi che diverrà uno dei suoi mastri di fiducia; mio padre e miei zii hanno lavorato con i Bertocchi a Orani… insomma è tutta una questione di comunità, connessioni, generazioni, e ri-posizionamenti. Prima del racconto di Daniele non avrei mai pensato di occuparmi di Le Corbusier, oggi lo uso come uno strumento di lavoro, materia da plasmare, azioni da generare.

Parlaci del lavoro di studio e ricerca che precede una nuova fase del tuo progetto di permanenza itinerante. È parte della tua pratica? Qual è il tuo approccio?

Il lavoro principale è quello di trovare il modo di entrare in una di queste case. C’è una ricerca di relazioni che ti fanno arrivare a dei contatti e da lì inizia un’opera di avvicinamento, scambio, affidamento di un mazzo di chiavi. Agli inizi c’era una fase di studio e documentazione da pre-residenza; è stato così soprattutto per la tappa all’Esprit Nouveau di Bologna o allo Studio-Appartamento di Le Corbusier a Parigi. Oggi sono più libero e posso permettermi di arrivare alla tappa successiva con maggior leggerezza, in quanto ho interiorizzato i punti cardine del processo e conosco a memoria la cellula che sta alla base dell’opera di Le Corbusier. L’approccio con queste costruzioni è stato comunque sin da subito familiare, come se ci fossi già stato. Sarà forse perché queste abitazioni hanno avuto a che fare con dei compaesani e ne conservano ancora l’umore.



FIAT 127 Special (Chameleon) version Apt. 258 UH Berlin, 2019; produced by the Anna and Francesco Tampieri Collection © Cristian Chironi
Le Corbusier e il suo "Modulor" nel suo ufficio, 35 rue de Sèvres, Parigi, 1959.
Le Corbusier e il "Modulor" nel suo ufficio, 35 rue de Sèvres, Parigi, 1959. © René Burri - Magnum Photos

Che valenza ha il periodo di spostamento e di viaggio tra una tappa e l’altra, tra una performance e l’altra? Come la vivi e la interpreti?

Lo spostamento da una tappa all’altra è un pò come il metabolismo di una tartaruga, che talvolta va in letargo o si muove con la sua casa materializzando luoghi a distanze lunghissime. Ogni viaggio è percorso esperienziale diverso, in cui le abitudini vengono azzerate, uscendo da una zona di comfort e cambiando completamente vita.

Viaggiare/vivere nella Fiat 127 “Camaleonte” cambia in qualche modo la tua esperienza della dimensione spazio-temporale intorno a te?

La Fiat 127 Special ribattezzata Camaleonte per la sua capacità di mutare colore a seconda dei luoghi in cui si ferma, cammina a 80 km orari, se la spingi oltre è come stare all’interno di una lavatrice, ed è anche per questo una macchina da abitare. Lo spostamento da un punto all’altro ha a che fare con un’osservazione fuori dal finestrino, con la presa di coscienza di una temporalità lenta e di lunghe distanze, che consentono di vivere a pieno la condizione del viaggio. Il lavoro si basa su un’idea di transito, di incroci di culture e geografie diverse. Una migrazione o un pellegrinaggio che considera però la funzionalità e non l’adorazione.

Che significato ha avuto l’ultima tappa, quella berlinese, dopo l’esperienza del ritorno a casa? E poi? Qual è la tua prossima tappa?

L’esperienza berlinese all’interno dell’appartamento 258 è stata diversa dalle altre in quanto ho convissuto con i reali proprietari della cellula abitativa, Henrik e Natalia Svedlund, che per più di una settimana mi hanno concesso di vivere insieme a loro. Ho voluto includerli nell’opera-progetto My house is a Le Corbusier dandogli un ruolo attivo, Henrik è un ottimo musicista che lavora alle poste e ha creato su mio invito la composizione sonora per il video che raccoglie le cartoline che Le Corbusier collezionò nell’arco di tutta la sua vita. Questa sesta residenza, che cade nel 150° anniversario della cartolina postale e a trent’anni dalla caduta del muro di Berlino, invoca simbolicamente la libera circolazione e l’abbattimento di tutti i confini. Natalia, brewing engineer, si è presa cura della mia ospitalità e dell’organizzazione della video performance, che abbiamo aperto ad amici e vicini di casa a fine residenza. La prossima tappa sarà ancor più particolare e inizierà a metà Aprile del 2020, in una delle prime abitazioni di Le Corbusier in Svizzera.