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De Rebus
Sardois




De Rebus
Sardois



© De Rebus Sardois 2022


Una forma d’arte effimera:
la modellazione
figurativa dei pani

di Giulia Olianas
19 agosto 2022

Nonostante la Sardegna sia stata più volte definita “terra del poco pane” a causa di una presunta difficoltà produttiva legata alla disomogeneità delle sue terre, fu proprio da questa condizione di necessità che il pane, alimento semplice e basilare, si è arricchito di un nuovo senso, divenendo prezioso e quasi “sacro”. Fondamento della vita materiale, base alimentare di una società fortemente ancorata alla produzione cerealicola, il pane ha assunto il ruolo di protagonista di quella che Alberto Cirese definì una nuova forma d’arte creativa “effimera”, ovvero la modellazione figurativa dei pani, che per il suo alto livello di specializzazione e perizia tecnica venne definita dallo stesso studioso come uno dei tratti più intrinseci e rappresentativi della cultura sarda.


Dagli esiti della raccolta del grano è sempre dipesa la sopravvivenza delle comunità dell’isola, e la vita dei contadini è sempre stata dominata dall’imprevedibilità degli eventi naturali; da qui il costante ricorso a divinità e santi, la richiesta di aiuto e protezione attraverso la formulazione di voti, l’offerta di feste, preghiere e processioni, in cui il pane diviene segno di abbondanza e allegoria di prosperità alimentare.  L’arte della modellazione dei pani, attività prettamente femminile, assume forme diverse a seconda dell’occasione, per cui ad ogni festa corrisponde una precisa tipologia formale, che raggiunge l’apice della complessità in corrispondenza dei momenti cruciali dell’anno agrario e pastorale. I pani decorati, pani pintaus, si caratterizzano per la loro elaborazione a figurazioni stilizzate e per le composizioni intagliate e traforate, ottenute con strumenti quali punzoni, rotelle e timbri, e sono spesso rifiniti con uno strato di lucidatura (pane ischeddau).


Foto e pani realizzati da Antonietta Spanu


Forme speciali di pane sono inoltre associate a precisi momenti di passaggio della vita del singolo, quali battesimi, fidanzamenti, e soprattutto matrimoni (pani de is isposus), in cui il pane è modellato a forma di cuore, di colomba o mezzaluna, ed è talvolta intrecciato con tralci di pervinca, ma anche morti (pani de is animas) e vari tipi di pane per i bambini (craixedda, fraschitteddu).  Diffusissimi sono i pani confezionati in occasione delle feste cristiane, in particolare i pani della Quaresima e quelli della Pasqua. 

I primi assumono forme diversa ogni settimana, tra le quali vale la pena ricordare Sa Pippia ‘e Caresima, pane a forma di bambina con sette gambe corrispondenti ai giorni della settimana che venivano staccate giorno dopo giorno per misurare il tempo mancante alla Pasqua, Sa Pramma in cui la lavorazione della pasta rimanda all’intreccio delle palme benedette, Lazzareddu, pane rappresentante in modo assai realistico la figura di Lazzaro, e pani simboleggianti gli strumenti della passione, quali i chiodi, la scala, la corona di spine, la croce. I pani pasquali più diffusi sono invece i Coccoi cun s’ou, tutt’ora largamente prodotti, in cui l’inserimento delle uova rimanda alla rinascita.





Il pane nell’arte del Novecento in Sardegna

Alla tematica della panificazione fa riferimento nelle sue sculture più mature anche Costantino Nivola, che attraverso l’allusione al gesto femminile dell’impastare ricorda i pochi momenti felici della sua infanzia trascorsa a Orani. Nelle ceramiche degli anni Sessanta e Settanta la creta è modellata attraverso un tocco sensibile e delicato, in cui la sensualità della manipolazione evoca il rito domestico della panificazione, non senza associazioni erotiche. Così l’immagine visiva del pane tradizionale sardo, della grande sfoglia tondeggiante, suggerisce i temi formali della maturità artistica di Nivola: le superfici lisce ed orizzontali in Spiagge, il profilo curvilineo e convesso delle Madri e delle Vedove, in cui la forma femminile è solo un risultato.  Proprio a queste ultime opere si lega il ricordo del muro panciuto della casa natale che celava al suo interno il tesoro, il pane piatto e sottile che si gonfiava al calore del forno, configurandosi come promessa di appagamento della fame; allo stesso modo, la donna gravida nasconde in grembo il tesoro del figlio in arrivo. L’associazione muro-pane-fertilità femminile è esplicitata da Nivola nell’opera Su Muru Pringiu, una lastra in pietra di trani convessa al centro, in cui ritorna anche il tema del costruire, per cui uomo e donna coincidono nella sacralità del rito basilare della vita. In Nivola il pane diventa metafora della creazione, della vita come dell’opera d’arte. 

Maria Lai, Legarsi alla Montagna, 1981 Foto © Piero Berengo Gardin

Anche per Maria Lai la panificazione si fa metafora di arte e di vita. Il pane è una suggestione continua che l’accompagnò lungo tutto il suo percorso artistico, fin dagli esordi, tanto che la stessa artista dichiarò che la sua prima accademia fu quella delle donne impegnate a fare il pane a casa, in momenti di condivisione del sapere immateriale, in cui i gesti si trasformavano in visioni mistiche caratterizzate da profonda ritualità e senso del mistero. Maria Lai utilizza inizialmente il pane come materia scultorea spontanea, come simbolo che comunica vita: pani a forma di serpenti, di colombe, di bambini, attraverso cui l’artista ricerca nuovi risultati plastico-semantici. Nei suoi Pupi di pane, la tradizione precristiana della nascita annuale si fa materiae, incarnandosi in forme antropomorfe cosparse di semola, dall’aria vulnerabile, caratterizzate da tratti semplificati e sintetici. Con i bambini di pane la celebrazione plastica della scultura tradizionale si sposta nel contesto domestico della cucina, realizzando quel riscatto pubblico di uno spazio privato da sempre riservato alle donne. “Il pane mi rispondeva”: per Maria Lai l’arte ha bisogno di una frequentazione giornaliera, come il pane quotidiano che si gonfia in forno e che trasmette così un senso di vita.





Eterotopia, gruppo di ricerca e progettazione territoriale, pubblica il suo primo libro di indagine sull’arcipelago sardo di La Maddalena, modello di relazioni molteplici e complesse, attraverso la lente di un laboratorio collettivo








La Maddalena. Atlante di un’occupazione

Un libro che racconta il territorio e le sue alleanze inattese tra la terra e i suoi occupanti

29 maggio 2022

Un libro manifesto

La Maddalena. Atlante di un’occupazione, è il manifesto fondativo di una pratica progettuale all’intersezione tra ricerca, progettazione e l’interazione tra diverse discipline, che ambisce a dare forma all’intangibilità e agli immaginari radicati nei territori. Costruito sulla base di un laboratorio di ricerca curato da Eterotopia nel 2018, il libro aspira a propore strategie che trovino nel sodalizio tra le diversità la propria forza.


 



I territori sono campi di sperimentazione e generano stratificazioni di storie, fenomeni e mitologie. In quanto ricettacoli di consuetudini ed eccezioni, racchiudono grandi sfide per l’architettura e l’urbanistica contemporanea.

Nel suo primo progetto editoriale, Eterotopia indaga la condizione contemporanea del territorio italiano e la sua complessità, intrecciando condizioni manifeste e immaginate per sostenere la dignità del patrimonio immateriale dei luoghi e trasformarlo in progetto. 


Ben lontano dall’essere una guida turistica dell’arcipelago, questo libro propone una progettualità a più livelli, che tenga conto del vissuto degli abitanti, delle sue leggende,

delle geografie e delle vicende antropologiche che lo animano, prediligendo alla visione zenitale dei satelliti e dei cartografi uno sguardo obliquo e trasversale sul territorio indagato.


Le riflessioni teoriche introduttive a questo lavoro si affiancano alle visioni progettuali raccolte durante il laboratorio di ricerca interdisciplinare, che ha radunato più di centoventi architettə, archeologə, biologə, fotografə e artistə, a riflettere sulle risorse invisibili dell’arcipelago sardo di La Maddalena.

Un’indagine territoriale dell’arcipelago di La Maddalena



L’arcipelago di La Maddalena è un modello complesso di rapporti di interdipendenza e connessione, che, nella sua unicità, è rappresentativo di diversi tipi di sistemi isolati sul territorio italiano. La Maddalena. Atlante di un’occupazione è la prima indagine territoriale del collettivo di architettə Eterotopia e approfondisce diverse tematiche legate al territorio insulare, la cui storia è caratterizzata da un susseguirsi di occupazioni.


Dall’esercito Napoleonico al prolifico soggiorno della NATO, dalla fallimentare vicenda del complesso G8 al carico antropico stagionale del turismo di massa, dalle colonizzazioni vegetali alle contaminazioni culturali del porto di La Maddalena, quest’isola nell’isola ha


registrato un continuo flusso di occupazioni e abbandoni, che la rende un modello di studio di diverse tematiche alla congiunzione tra locale e globale.

A distanza di tre anni dal laboratorio di ricerca territoriale a La Maddalena, Eterotopia si immerge nella profondità di questi mari pieni di terre per riaffiorare con una visione unitaria, alla base di una pratica progettuale a scala territoriale.


Otto visioni in forma di atlante

Otto visioni in forma di atlante raccontano la stratificazione di storie, immaginari e architetture, a celebrare le alleanze inattese tra la terra e i suoi occupanti. La struttura del libro è articolata in diverse sezioni: Prospettive raccoglie un ampio corpus di riflessioni sul fare territorio nella forma di cinque saggi; Atlante di un’occupazione racconta l’interpretazione delle autrici e degli autori sul territorio indagato e i rapporti di contaminazione e di forza tra la terra e i suoi occupanti; Le 8 tematiche, infine, sviluppano le visioni del laboratorio collettivo in una multiforme varietà di contenuti.

La Maddalena. Atlante di un’occupazione, dal 9 giugno in libreria, sarà pubblicato da Quodlibet nella collana Città e Paesaggio.


Fuori formato, e raccoglie i contributi di Luis Callejas, Stefano Boeri, Pippo Ciorra, Annalisa Gulino, Nicolò Fenu, ENORME Studio, VacuaMoenia, Parasite 2.0, 

Giaime Meloni, Something Fantastic, Paolo Patelli, Traumnovelle, Giuseppe Ridolfi, urbz, Alterazioni Video, Orizzontale, Cherimus, Openfabric, CEA di Stagnali, False Mirror Office, Pascal Arnaud.


Il progetto grafico è a cura di Studio Natale, studio grafico con base a Roma.


Il libro è a cura di Elena Sofia Congiu, Matteo De Francesco, Carlotta Franco, Samanta Sinistri, Giuditta Trani e Mara Usai.

Il progetto è stato sostenuto dalla Regione Sardegna, dal Comune di La Maddalena e da Ceramica Mediterranea.





               

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ETE
  ROTO       
      PIA
La Maddalena


Il documentario Eterotopia - La Maddalena, regia di Ivo Pisanti (2020), in visione streaming fino al 6 gennaio 2022                                                        


Un laboratorio di ricerca come nuovo punto di vista collettivo sul territorio. 
di Giulia Olianas

Vincitore del premio Italiae all’ultima edizione dell’Asolo Film Festival, il documentario “Eterotopia – La Maddalena”, diretto da Ivo Pisanti, racconta di un incontro volto alla sperimentazione e ricerca.

Eterotopia è il nome del workshop di architettura tenutosi a La Maddalena nel 2018, in cui otto studi di architettura e ottanta partecipanti, tra studenti di diverse facoltà, ricercatori, artisti, sociologi, architetti e altri professionisti di discipline affini, hanno avuto occasione di confrontarsi attorno alla complessità territoriale dell’arcipelago sardo.  

Le eterotopie si definiscono come spazi speciali e complessi: per il filosofo Michel Foucault, che coniò il termine, sono realtà spazio-temporali a sé stanti, in cui è possibile vivere un’esperienza alternativa del reale. Si configurano come dei controspazi delle utopie che trovano realizzazione nella realtà, nonché come luoghi in cui convivono spazi tra loro incompatibili.

È in questa direzione che il collettivo di architetti di Eterotopia si muove, verso la ricerca di tali realtà sul territorio italiano, la loro individuazione e il loro studio, con l’obiettivo di esplorare la loro complessità.


La Maddalena diviene dunque il punto di partenza: l’isola si configura come perfetta incarnazione del concetto di eterotopia, in quanto raccoglie in sé una serie di contraddizioni che ne caratterizzano non solo il paesaggio ma anche l’essenza. 

Contrasti che si rivelano in un territorio che è oasi naturale e al tempo stesso meta di turismo di massa, terra di pastori ma anche base militare americana, per arrivare infine a essere sede del G8 e poi, a causa del suo fallimento, terra di opere incompiute, inquinamento marino e strutture abbandonate.


Appartenenza, colonialismo, trauma, mobilità, tempo e resistenza sono alcune delle tematiche che sono state affrontate durante il workshop e che hanno coinvolto otto studi di architettura internazionali: Enorme Studio, False Mirror Office, Open Fabric,

Orizzontale, Parasite 2.0, Something Fantastic, Traumnovelle e

Urbz.

Il documentario, selezionato da prestigiosi film festival internazionali, quali l’Istanbul International
Architecture and Urban Film Festival, il Moscow International Design Film Festival, il Milano Design Film Festival e il Festival Visioni Urbane, mostra come il risultato finale di questa fucina di sperimentazione vada oltre la formulazione di progetti e al di là di proposte di valorizzazione e riconversione.

Eterotopia è connessione: di luoghi, di persone, di discipline, di punti di vista, è un’esortazione a cogliere la specificità dei luoghi e a rispettarla attraverso la costruzione di uno sguardo critico.





Produzione: Eterotopia
Diretto da Ivo Pisanti
Assistente regia: Fabio Caccuri
Fotografia: Leonardo Annibali
Sceneggiatura: EterotopiaCollettivo Caleido


 

 

In occasione della

78. Mostra Internazionale  d'Arte
Cinematografica di Venezia

Antonioni 
Beyond
the
Dome
 

Oltre La Cupola


9 settembre 2021 - Venezia
HOTEL EXCELSIOR LIDO RESORT, SALA TORCELLO
Lungomare Guglielmo Marconi, 41, 30126 Lido VE
10.00-22.00 - entrata libera
a cura di Sara Nieddu,  Madel Nieddu 
info@derebussardois.com

La mostra

IL SENSO DI ANTONIONI PER L’ARCHITETTURA:  LA CUPOLA DI COSTA PARADISO CINQUANT'ANNI DOPO IL SUO COMPLETAMENTO (1971-2021)



Nell'estate del 1964 Antonioni si trovava nell’arcipelago di La Maddalena per girare alcune sequenze del film Deserto Rosso nell’ancora sconosciuta spiaggia rosa di Budelli. Durante le riprese il regista rimase colpito dalla singolare bellezza del luogo e decise, insieme all’allora compagna Monica Vitti, di acquistare un terreno al fine di costruire la propria dimora in Sardegna.

La progettazione della casa viene affidata nel 1969 all’architetto Dante Bini, noto in tutto il mondo per aver brevettato un nuovo metodo di costruzione chiamato Binishell, la cui procedura prevede la realizzazione di semisfere in cemento gonfiate con la sola pressione dell’aria.

Lo stesso regista contribuisce al disegno della casa fornendo idee e suggestioni e dando un apporto significativo nella scelta di forme e materiali. La forma geometrica pura si contrappone al paesaggio lunare che la circonda. Isolata dal resto dell’abitato, la villa appare come una roccia scolpita dal vento, color sabbia come gli scogli che la circondano, la cui parvenza deriva dall’intuizione dell’architetto Bini di mescolare il cemento insieme alla polvere del granito locale.


“Un eccezionale esempio di architettura residenziale del ventesimo secolo”.

Rem Koolhaas, curatore della 14° Biennale di Architettura di Venezia, nel descrivere la Binishell di Costa Paradiso progettata da Dante Bini e commissionata da Michelangelo Antonioni e Monica Vitti nel 1969 e ultimata nel 1971.






plastico della villa © Archivio Dante Bini

plastico della villa © Archivio Dante Bini

Plastico della villa © Archivio Dante Bini



Qui Antonioni trascorreva i mesi circondandosi di libri e sceneggiature a cui lavorare, dall'estate fino all'autunno inoltrato, da solo o con gli amici illustri, come lo sceneggiatore Tonino Guerra e il maestro del cinema Andrej Tarkovskij.

La residenza, una volta ceduta la proprietà da parte prima di Monica Vitti ed in seguito da Antonioni e la futura moglie Enrica Fico, venne abbandonata al suo destino. Dimenticata, isolata, talvolta incompresa, oggi rimane un’affascinante e decadente presenza che si consuma in solitudine.

De Rebus Sardois nel 2020 lancia una petizione online destinata al Fai, istituzioni e proprietari, per provare a salvarla da abbandono e incuria, proponendo dei possibili progetti di riqualifica.




Trascorso un anno e in occasione del cinquantennio del completamento dell'edificio (1971-2021), l’esposizione

vuole celebrare la sua memoria artistica e architettonica attraverso una mostra fotografica che ripercorre i momenti più significativi dalla progettazione ad oggi, grazie al contributo dell’archivio Bini, il film La Cupola del regista tedesco Volker Sattel, il video-saggio Lo Spazio e l'Architettura nel Cinema di Antonioni del critico cinematografico Stefano Santoli e materiale proveniente da cineteche ed archivi italiani e stranieri.


L’esposizione, oltre a porre una riflessione sul glorioso passato e possibile futuro della villa, indaga anche il sottile senso di Antonioni per l’architettura, attraverso un’analisi sull’utilizzo dello spazio e del paesaggio nella narrazione cinematografica antononiana. L'attenzione per il paesaggio ed elementi architettonici che vediamo nei film di Antonioni (manufatti, muri, crepe, scale, tubature, finestre ecc.) è di fatto la stessa riservata alla progettazione della casa, la quale sembra avere un'anima, una vita propria, nonché un ruolo fondamentale nella vicenda professionale e personale del regista. La casa appare come un chiaro rimando alla poetica di Antonioni, dove il paesaggio e le forme inanimate hanno un ruolo attivo e fondamentale nel racconto.


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