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De Rebus
Sardois

a visual journey through Sardinia



De Rebus
Sardois



© De Rebus Sardois 2024






La Casa del Poeta: un progetto di vita e arte in armonia con la natura 

di Sara Nieddu,
12 settembre 2024


Costruita nel 1969 da Orlanda Sassu (conosciuta anche come Iolanda) ed Efisio Sanna, la Casa del Poeta è un esempio affascinante di architettura spontanea nella costa occidentale della Sardegna, che  racconta la storia di un legame profondo tra uomo e natura.

Iolanda ed Efisio, accomunati da una vivace passione per la poesia e la composizione di canzoni, decisero di creare un rifugio estivo tra le dune della spiaggia di Pistis che riflettesse la loro visione artistica e filosofia di vita; un luogo di pace e ispirazione, dove poter esprimere liberamente la loro creatività e condividerla con chiunque fosse alla ricerca di un’esperienza poetica.




La casa fu costruita interamente a mano dalla coppia, utilizzando principalmente materiali raccolti sul posto, legni trasportati dal mare, piante locali e pietra di scisto. Al centro della struttura si erge il tronco del secolare ginepro, attorno al quale la casa è stata progettata. I rami dell'albero, aprendosi a ombrello, fungono da soffitto naturale, creando un dialogo tra l'interno e l'esterno che dissolve i confini tra l'abitazione e il paesaggio. L’architettura vegetale in questione, che va ben oltre il concetto di semplice casa o capanna, rappresenta un'espressione autentica di architettura spontanea, un modello esemplare di come l'uomo possa integrarsi e convivere in completa armonia con il contesto naturale che lo circonda.  La Casa del Poeta non era solo un ritiro estivo, ma un vero e proprio spazio di narrazione e scambio.

Sotto la chioma del ginepro, protetti dall’ombra accogliente dell’albero, i poeti hanno accolto numerosi ospiti, dando vita a una comunità temporanea di artisti e curiosi.


Ogni elemento della casa — dagli archi in legno dell'ingresso al vialetto che conduce al giardino di piante succulente — è stato pensato per favorire la convivialità e l’interazione umana. Efisio, ex minatore di Montevecchio, trascriveva le sue composizioni su carta e le esponeva alle pareti della casa, mentre Orlanda utilizzava un registratore a cassette per catturare pensieri e momenti, con l'intento di conservare la memoria della sua esistenza e della lingua che temeva potesse scomparire. Le registrazioni, contenenti anche poesie cantate in rima, offrono una narrazione dei luoghi significativi della sua vita. Nel 2022, il progetto Iolanda mi nant de nòmini, realizzato da Studiolanda, il duo multidisciplinare formato da Giorgia Cadeddu e Vittoria Soddu, ha portato alla luce, in formato digitale, questo archivio sonoro, restituendo con un audio-documentario una preziosa testimonianza di vita.



In ragione della forma e dei materiali poveri utilizzati, la casa rimanda inevitabilmente al concetto archetipico di capanna, inteso come primo spazio di rifugio dell'uomo. Questo tema ha sempre affascinato architetti e designer, poiché rappresenta una delle forme più pure e fondamentali di abitazione umana. Come il "Cabanon" di Le Corbusier, progettato secondo misure antropocentriche e concepito come rifugio minimalista immerso nella natura, anche la Casa del Poeta è un omaggio all’idea di una vita semplice e integrata con l’ambiente.





Dell’originale architettura vegetale dove arte e natura si fondevano, oggi rimane l'imponente ginepro, emblema della straordinaria storia della coppia di Guspini. Questo albero, monumento vivente che resiste alla scomparsa dei suoi protagonisti, continua a evocare riflessioni sulla relazione tra l'uomo e l'ambiente, invitandoci alla condivisione e a una connessione profonda e rispettosa con la terra.




Vittorio De Seta, il poeta della veritàdi Giulia Olianas, 30 gennaio 2024
“Poeta della verità” e “Antropologo con la voce di un poeta”: così prima Pier Paolo Pasolini e poi Martin Scorsese definirono Vittorio de Seta, padre del documentario italiano, che meglio di chiunque altro è riuscito a restituire, attraverso i suoi film, un’immagine fedele ed autentica della Sardegna degli anni Cinquanta e Sessanta. 

È stato proprio Scorsese a promuovere e finanziare, con la sua Film Foundation e insieme alla Cineteca di Bologna, il restauro del lungometraggio più famoso di De Seta, Banditi a Orgosolo, uscito nel 1961, premiato lo stesso anno come “miglior opera prima” alla Mostra del Cinema di Venezia e proiettato l’anno successivo a New York.

Il film, ambientato in Barbagia, racconta una storia di conflitto tra potere e popolo, tra cultura dominante e culture subalterne: Michele, un pastore orgolese, viene accusato di un reato che non ha commesso, e braccato in un paesaggio arido e silenzioso, è costretto a diventare bandito per sottrarsi alla miseria e alla fame che uccide il suo gregge. Attraverso una storia semplice De Seta propone una riflessione sulle relazioni tra stato e comunità, sul controllo del potere centrale sulle realtà periferiche nell’Italia del boom economico, rimaste escluse dall’ondata di cambiamento che aveva invaso i modi e gli stili di vita della società nazionale, impossibilitate a seguire il tempo della storia. 

De Seta arrivò ad Orgosolo nel 1958, sulla scia dell’interesse suscitato per il paese dalla pubblicazione nel 1954 di “Inchiesta su Orgosolo” dell’antropologo Franco Cagnetta: un resoconto che metteva in evidenza come la politica dello stato italiano nei confronti della comunità orgolese fosse in larga misura di tipo repressivo, decostruendo il pregiudizio lombrosiano di comunità “di briganti”, chiusa e diffidente per natura, e affermando invece che il rapporto conflittuale tra paese e  Stato fosse causato dalle azioni ostili e dallo sguardo di sospetto che le autorità avevano sempre riservato a Orgosolo.



L’integrazione di De Seta in paese non fu semplice; gli abitanti guardavano con diffidenza chi veniva da lontano, perché abituati alle incursioni di chi arrivava per indagare e scrivere sul banditismo, e che contribuivano così alla diffusione di un’immagine negativa della comunità. Grazie a dei contatti fornitigli da Cagnetta, De Seta fu introdotto alla comunità da delle persone del posto che divennero sue guide; iniziò così un periodo di condivisione di situazioni con la popolazione, dal trascorrere lunghi periodi con i pastori in montagna, all’osservare i giochi dei bambini per strada. Questo periodo di ricerca sul campo, in pieno stile Malinowski, fu fondamentale per capire che impulso dare alla trama del documentario: per un anno De Seta prese appunti sui modi di vita degli orgolesi e ne studiò ogni aspetto, dalle attività quotidiane alle relazioni con la giustizia, con uno sguardo a 360 gradi che gli permise di raccontare il carattere della comunità attraverso un approccio documentarista.

 Banditi a Orgosolo è un film semplice, dalla trama non particolarmente elaborata, le sue scene si caratterizzano per la nitidezza della fotografia e per la potenza espressiva dei singoli fotogrammi, che se isolati non fanno alcuno sforzo ad esistere indipendentemente l’uno dall’altro, dimostrando una grande autonomia narrativa. Il livello di intimità che De Seta raggiunse con la comunità orgolese è testimoniato dal primo film che egli realizzò ad Orgosolo, l’anno in cui arrivò: Un giorno in Barbagia è un breve documentario che racconta la vita quotidiana degli abitanti di Orgosolo, in particolare delle donne, rimaste in paese mentre la maggior parte degli uomini lavorava con le greggi in montagna.

Le attività quotidiane sono riprese da vicino nel loro svolgersi nel corso di tutta la giornata, all’interno delle case: le distanze tra regista e persone riprese sono azzerate, le scene sono animate da un senso di intimità e di sintonia, gli orgolesi consideravano ormai De Seta come uno di loro, come uno del paese. Significativa è l’ambientazione nel centro del paese, all’interno di case costruite una a fianco all’altra, poco distanziate tra loro, che costituiscono un tessuto abitativo estremamente ristretto, rinforzando quel sentimento di legame e di intimità esistente tra abitanti e tra essi e il regista.



Sempre del 1958 è Pastori di Orgosolo, altro cortometraggio che De Seta realizzó per raccontare la vita dei pastori che lasciavano il paese per restare con le greggi in montagna. Ambientato nel Supramonte, esso mostra la durezza dell’esistenza di questi uomini che in totale solitudine dovevano far fronte a difficoltà ed intemperie per sopravvivere all’inverno in un ambiente quasi ostile, in un silenzio rotto solo dai suoni dei gesti quotidiani.

I film di De Seta possono essere considerati un prodotto innovativo per quanto riguarda la conduzione degli attori. I personaggi di Un giorno in Barbagia, di Pastori di Orgosolo e di Banditi a Orgosolo sono infatti tutti interpretati da abitanti di Orgosolo; De Seta sceglie appositamente di non lavorare con attori professionisti per mantenere la spontaneità di chi mette in scena sé stesso.

La scrittura stessa della sceneggiatura è una scrittura collettiva, realizzata attraverso la definizione di un canovaccio che lasciava poi spazio all’improvvisazione, per valorizzare l’espressione della gente del posto, secondo una tecnica di messa in situazione. Un metodo questo non senza complicazioni: la spontaneità degli attori finiva infatti per deformare il testo iniziale, che subiva costanti correzioni e cambiamenti di tiro per riportarvi logicità. Un processo lungo e complicato il cui fine era proprio il cogliere lo spirito della comunità dall’interno. In Banditi a Orgosolo i dialoghi, ripresi e girati in orgolese, furono alla fine doppiati in italiano, come spiegò lo stesso De Seta, per ragini commerciali; fu Gian Maria Volonté a prestare la sua voce al protagonista.




Pontinental
Pineta
Beach Hotel



di Sara Nieddu
26 aprile 2023

Il sogno mediterraneo della midlle-class inglese firmato Joe C. Colombo


Progettato dagli architetti Baldi e De Luigi di Firenze, l'Hotel Pontinental sorgeva in una grande pineta sulla costa tra Porto Torres e Sorso, nel golfo dell'Asinara. L'albergo, costruito nel 1962 dall’imprenditore inglese Sir Fred Pontin, fu il primo resort estero della catena alberghiera omonima e uno dei primi centri balneari realizzati nel nord dell'isola. Pensato per accogliere la middle class inglese, l’albergo era dotato di spiaggia, piscina, discoteca, minigolf e campo da tennis. Si estendeva in altezza su tre piani e poteva ospitare fino a trecento ospiti.






Gli interni furono affidati al promettente designer Joe C. Colombo, già premiato nel 1963 dalla Triennale di Milano per la MiniKitchen a ruote, che presto diventerà un’icona per la sua modernità e lungimiranza.

L’arredamento concepito dall’architetto milanese, che gli varrà il prestigioso premio INARCH, spicca per la sua modernità e flessibilità: elementi smontabili realizzati in Lombardia per essere sezionati per il trasporto e rimontati nell’hotel. Le impennate e i rivestimenti sono in longheroni di legno, avvitati tra loro e senza incastri. Anche nelle camere, i letti, le tolette, le mensole e le panche, sono totalmente scomponibili. Creativa è anche l'ideazione di una vera e propria rotaia ferroviaria, utilizzata come corrimano per le scale e sostegno per le mensole e comodini nelle camere.


Il materiale impiegato è il teak indiano e l’acciaio inossidabile, ottimo alleato per resistere alla salsedine del vento marino. Il soffitto della hall, invece, viene realizzato con liste di legno da cui sporgono dei parallelepipedi in plexiglas che, come dei cristalli di ghiaccio, diventano conduttori di luce, creando così un suggestivo effetto luminoso.

 

Le sala lounge e quella ristorante sono particolarmente soleggiate, grazie a grandi aperture che illuminano gli ambienti durante le ore più calde. Per ovviare alla luce diretta del sole, le vetrate vengono schermate con dei frangisole. Il colore predominante dei tessuti è il rosso, in contrasto con i soffitti di color antracite scuro e le pareti delle sale, molto grandi, di color grigio chiaro, utilizzato per rendere luminose le zone più interne.

Ogni camera ha il proprio bagno e la propria macchina per il tè e, poiché i vacanzieri britannici credevano che tutto il cibo straniero avrebbe turbato il loro stomaco, la cucina del ristorante serve rigorosamente cibo inglese, arricchito da un unico piatto mediterraneo per gli spiriti più audaci.


Il progetto pionieristico del Pontinental, tuttavia, tramonta a fine negli anni ‘80, con la cessione della catena alberghiera e l’avvento del turismo di massa. Oggi, al suo posto, profondamente trasformato e gestito da una nuova proprietà, c’è il Villaggio dei Pini Hotel.





Una forma d’arte effimera:
la modellazione
figurativa dei pani

di Giulia Olianas
19 agosto 2022

Nonostante la Sardegna sia stata più volte definita “terra del poco pane” a causa di una presunta difficoltà produttiva, fu proprio da questa condizione di necessità che il pane, alimento semplice e basilare, si è arricchito di un nuovo senso, divenendo prezioso e quasi “sacro”. Fondamento della vita materiale, base alimentare di una società fortemente ancorata alla produzione cerealicola, il pane ha assunto il ruolo di protagonista di quella che Alberto Cirese definì una nuova forma d’arte creativa “effimera”, ovvero la modellazione figurativa dei pani, che per il suo alto livello di specializzazione e perizia tecnica venne definita dallo stesso studioso come uno dei tratti più intrinseci e rappresentativi della cultura sarda.


Dagli esiti della raccolta del grano è sempre dipesa la sopravvivenza delle comunità dell’isola, e la vita dei contadini è sempre stata dominata dall’imprevedibilità degli eventi naturali; da qui il costante ricorso a divinità e santi, la richiesta di aiuto e protezione attraverso la formulazione di voti, l’offerta di feste, preghiere e processioni, in cui il pane diviene segno di abbondanza e allegoria di prosperità alimentare.  L’arte della modellazione dei pani, attività prettamente femminile, assume forme diverse a seconda dell’occasione, per cui ad ogni festa corrisponde una precisa tipologia formale, che raggiunge l’apice della complessità in corrispondenza dei momenti cruciali dell’anno agrario e pastorale. I pani decorati, pani pintaus, si caratterizzano per la loro elaborazione a figurazioni stilizzate e per le composizioni intagliate e traforate, ottenute con strumenti quali punzoni, rotelle e timbri, e sono spesso rifiniti con uno strato di lucidatura (pane ischeddau).


Foto e pani realizzati da Antonietta Spanu


Forme speciali di pane sono inoltre associate a precisi momenti di passaggio della vita del singolo, quali battesimi, fidanzamenti, e soprattutto matrimoni (pani de is isposus), in cui il pane è modellato a forma di cuore, di colomba o mezzaluna. Diffusissimi sono i pani confezionati in occasione delle feste cristiane, in particolare i pani della Quaresima e quelli della Pasqua. 

I primi assumono forme diversa ogni settimana, tra le quali vale la pena ricordare Sa Pippia ‘e Caresima, pane a forma di bambina con sette gambe corrispondenti ai giorni della settimana, staccate giorno dopo giorno per misurare il tempo mancante alla Pasqua. Nel pane Sa Pramma la lavorazione della pasta rimanda all’intreccio delle palme benedette, mentre nel Lazzareddu, il pane diventa in modo assai realistico la figura di Lazzaro; non mancano poi gli strumenti della passione, quali i chiodi, la scala, la corona di spine e la croce. 




Il pane nell’arte del Novecento in Sardegna

Alla tematica della panificazione fa riferimento nelle sue sculture più mature anche Costantino Nivola, che attraverso l’allusione al gesto femminile dell’impastare ricorda i pochi momenti felici della sua infanzia trascorsa a Orani. Nelle ceramiche degli anni Sessanta e Settanta la creta è modellata attraverso un tocco sensibile e delicato, in cui la sensualità della manipolazione evoca il rito domestico della panificazione, non senza associazioni erotiche. Così l’immagine visiva del pane tradizionale sardo, della grande sfoglia tondeggiante, suggerisce i temi formali della maturità artistica di Nivola: le superfici lisce ed orizzontali in Spiagge, il profilo curvilineo e convesso delle Madri e delle Vedove, in cui la forma femminile è solo un risultato.  Proprio a queste ultime opere si lega il ricordo del muro panciuto della casa natale che celava al suo interno il tesoro, il pane piatto e sottile che si gonfiava al calore del forno, configurandosi come promessa di appagamento della fame; allo stesso modo, la donna gravida nasconde in grembo il tesoro del figlio in arrivo. L’associazione muro-pane-fertilità femminile è esplicitata da Nivola nell’opera Su Muru Pringiu, una lastra in pietra di trani convessa al centro, in cui ritorna anche il tema del costruire, per cui uomo e donna coincidono nella sacralità del rito basilare della vita. In Nivola il pane diventa metafora della creazione, della vita come dell’opera d’arte. 

Maria Lai, "Pagine" - Studio Stefania Miscetti -Maria Lai, Legarsi alla Montagna, 1981 Foto © Piero Berengo Gardin

Anche per Maria Lai la panificazione si fa metafora di arte e di vita. Il pane è una suggestione continua che l’accompagnò lungo tutto il suo percorso artistico, fin dagli esordi, tanto che la stessa artista dichiarò che la sua prima accademia fu quella delle donne impegnate a fare il pane a casa, in momenti di condivisione del sapere immateriale, in cui i gesti si trasformavano in visioni mistiche caratterizzate da profonda ritualità e senso del mistero. Maria Lai utilizza inizialmente il pane come materia scultorea spontanea, come simbolo che comunica vita: pani a forma di serpenti, di colombe, di bambini, attraverso cui l’artista ricerca nuovi risultati plastico-semantici. Nei suoi Pupi di pane, la tradizione precristiana della nascita annuale si fa materiae, incarnandosi in forme antropomorfe cosparse di semola, dall’aria vulnerabile, caratterizzate da tratti semplificati e sintetici. Con i bambini di pane la celebrazione plastica della scultura tradizionale si sposta nel contesto domestico della cucina, realizzando quel riscatto pubblico di uno spazio privato da sempre riservato alle donne. “Il pane mi rispondeva”: per Maria Lai l’arte ha bisogno di una frequentazione giornaliera, come il pane quotidiano che si gonfia in forno e che trasmette così un senso di vita.